100 parole e 100 mestieri per la RAI
Nel suo Elogio dell’ozio Bertrand Russell confessa: “Ho gustato le pesche e le albicocche molto più di quanto le gustassi prima da quando ho saputo che si cominciò a coltivarle in Cina agli inizi della dinastia Han; e che i cinesi catturati in ostaggio dal grande re Kaniska le introdussero in India, da dove si diffusero in Persia giungendo all’impero romano nel primo secolo della nostra era. Tutto ciò mi rese questi frutti più dolci”.
Ecco, in sintesi, la mission della televisione, che ha il potere – ed essa sola ne ha tanto – di rendere più dolci o più amari i frutti che ci offre. Secondo John Dewey, “educare significa arricchire le cose di significato”.
Nessuno più della maestra televisione ha il potere di educarci o diseducarci arricchendo o impoverendo il significato delle cose.
Per un sociologo, la televisione ha due facce: educazione e potere. La nostra ha esercitato in misura sublime il potere di diseducare, con lo scopo preciso e raggiunto di fecondare consumismo e procurare consenso, fino a farsi strumento privilegiato della prima dittatura mediatica e consumista sperimentata dall’umanità.
Il consumismo è stato assicurato dall’azione congiunta di cinque fattori, per ognuno dei quali la televisione ha svolto un ruolo determinante: la pubblicità che ci ha indotto full time ai consumi superflui privilegiando i bisogni quantitativi su quelli qualitativi; le banche che ci hanno spinto a indebitarci per soddisfarli; i debiti che ci hanno costretto a lavorare di più per placare i creditori; la vanità che ci ha fatto ostentare i beni moltiplicandone la quantità invece di arricchirne il senso; l’obsolescenza programmata dei beni, che ci ha indotto a preferire l’inaugurazione alla manutenzione. Il risultato finale è un’abnorme trasformazione delle risorse in rifiuti, pur sapendo che la terra non riuscirà mai a ritrasformare questi rifiuti in risorse.
A causa di un tale ciclo infernale, i primi dieci contribuenti italiani hanno accumulato una ricchezza pari a quella di 3,5 milioni di poveri, accollando il prezzo della loro opulenza alla natura, alle generazioni future, alla salute dei consumatori, alle condizioni dei lavoratori e al Terzo Mondo.
Il consenso è stato assicurato dall’azione diseducativa intenzionalmente compiuta dalla nostra televisione spingendo il cittadino-spettatore verso un progressivo stato di disorientamento. A operazione compiuta, siamo ormai incapaci di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è bello da ciò che è brutto, ciò che è destra da ciò che è sinistra, ciò che è pubblico da ciò che è privato, ciò che è locale da ciò che è globale, ciò che è maschio da ciò che è femmina, persino ciò che è vivo da ciò che è morto.
Questo disorientamento sistematicamente indotto dai padroni del teleschermo, a loro volta disorientati, genera lo stato di crisi in cui tutti versiamo. E la sensazione di crisi ci impedisce di progettare il nostro futuro.
Per riprenderci il futuro occorre rivoluzionare la televisione, liberandola dagli stereotipi che l’accompagnano.
Rispetto allo spettatore di 50 anni fa, quello attuale è di gran lunga più colto, più nomade, più maturo, più libero da tabù.
L’audience non è direttamente proporzionale alla banalità dei programmi (basti pensare che una lettura dell’ultimo, difficilissimo canto della Commedia ha conquistato 14 milioni di ascoltatori).
Nel mercato dei media è l’offerta che fa la domanda: un programma stupido degrada chi lo concepisce e chi lo subisce; un programma intelligente è donatore di senso per entrambi. Per una sorta di Legge di Gresham, la moneta cattiva scaccia quella buona.
La conduzione dei programmi conferisce un potere esorbitante ai conduttori, cui offre vantaggi economici e professionali decisamente superiori alle professionalità richieste. Da anni, praticamente, la cultura socio-politica degli italiani è ostaggio di una quindicina di anchormen che ne condizionano la consistenza e la capacità critica. Ciò significa che nessun conduttore deve fruire di questo potere per un numero incongruo di anni.
Qualcosa di analogo deve valere per gli autori dei programmi, che in reti come la Globo brasiliana sarebbero supportati e condizionati da scrupolose ricerche socio-antropologiche, mentre in Italia sono liberi di diffondere idee e valori attinti alla loro intuizione approssimativa o al tornaconto dei loro committenti.
Per fortuna abbiamo un modello positivo e collaudato cui riferirci: la Terza Rete radiofonica, che rappresenta una vera e propria “università invisibile”, per usare il termine di De Solla Price. Se a una rete analoga si offrisse il dono dell’immagine, se si modulassero i suoi programmi in base alle fasce di ascoltatori, tutti intelligenti per definizione, l’Italia avrebbe già bello e pronto il format della sua televisione pubblica.
Ma il Governo non si illuda: per rivoluzionare questa televisione occorre scovare, ingaggiare, motivare e trattenere i talenti culturali là dove si annidano, non là dove si svendono. E occorre scegliere tra un mix di scaltrezza, burocrazia e approssimazione, e un mix di onestà, creatività e professionalità. Questa volta il Governo è di fronte a un bivio. E, come direbbe Lawrence Peter “Yogi” Berra, “Quando arrivi a un bivio, imboccalo”!
Intervento di Domenico De Masi al convegno dei Dirigenti Rai, Roma 21 giugno 2014
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